Sono le 18:15 del 13 febbraio 1983. Torino e il Piemonte tutto sono avvolti da una forte nevicata che spinge in molti a rimanere a casa al caldo.
Qualcuno, tuttavia, preferisce andare al cinema. Allo Statuto c'è un film comico, La Capra, con Gerard Depardieu.
La trama promette bene, uno sfortunato detective deve ritrovare la figlia scomparsa di un importante personalità. Il film è in programmazione nella sala da circa 13 settimane, ma è tutto normale visto che lo Statuto è un cosiddetto cinema di "seconda visione".
I primi 20 minuti del film sono andati via tra un giacchetto posato e le prime risate quando all'improvviso si verifica una fiammata causata da un cortocircuito, che incendia una tenda adibita a separare il corridoio di accesso di destra dalla platea.
Questa, cadendo, innesca il fuoco alle poltrone delle ultime file, tagliando un'importante via di fuga che, comunque, alcuni riescono ugualmente a guadagnare. La sala non è piena, ci saranno cento persone circa in tutto, e gli altri spettatori, terrorizzati, si rovesciano in massa sulle sei uscite di sicurezza che però, sono state tutte chiuse tranne una, per iniziativa del gestore, che in questo modo tenta di contrastare i frequenti ingressi di "portoghesi".
Dall'esterno si sentono le urla strazianti e le richieste di aiuto, mentre alcuni spettatori della platea riescono a raggiungere l'atrio della biglietteria, dov'è presente il proprietario del cinema, che cerca inutilmente di calmare gli animi temendo un'ondata di panico collettivo.
A questo punto hanno sfortunatamente luogo una serie di errori che risultano determinanti nel bilancio finale. Viene infatti a mancare l'illuminazione principale, ma non vengono accese le luci di sicurezza tramite l'interruttore ausiliario ubicato dietro la cassa e soprattutto la proiezione non viene interrotta, sempre secondo la ricostruzione, nel tentativo di contenere il panico.
Le conseguenze sono catastrofiche, perché in galleria il pericolo non viene percepito, se non quando è troppo tardi, col fumo che la invade. Chi si rende conto della situazione si dà alla fuga. Alcuni si dirigono verso l'accesso di sinistra che dà sull'atrio, senza riuscire a raggiungerlo (in questo punto si conteranno quasi quaranta morti), altri si rovesciano in quello di destra, che però porta alle toilette, e da esso non riescono più a uscire. Altri spettatori, inoltre, vengono trovati morti ancora seduti in poltrona.
Tutte le vittime hanno il viso annerito dal fumo tossico scatenato dall'incendio, che aveva trasformato la galleria in una sorta di camera a gas soffocando i presenti in meno di un minuto.
Il 15 febbraio seguente, nel duomo cittadino vengono celebrati pubblici funerali, alla presenza del Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini e del sindaco di Torino Diego Novelli. Si contano alla fine 64 morti, 31 erano maschi e altrettante femmine, mentre i rimanenti due sono un bambino e una bambina. La vittima più giovane ha 7 anni, la più anziana 55.
Le perizie successive alla tragedia dimostrarono che le cause dell'incendio, in realtà, andavano oltre le responsabilità o le negligenze individuali, comunque presenti: venne messo in dubbio l'intero sistema di leggi vigenti in materia di sicurezza, su scala nazionale, nell'Italia dei primi anni 1980, redatte in maniera superficiale e altrettanto superficialmente mal applicate.
In quegli anni le porte con maniglione antipanico erano poco diffuse nei pubblici esercizi e, soprattutto, non ancora obbligatorie, al pari di altri sistemi di prevenzione quali i rilevatori antincendio; i locali erano generalmente dotati di impianti elettrici in gran parte datati e, come nel caso del Cinema Statuto, spesso la certificazione sui rivestimenti dei sedili si limitava all'accertamento delle proprietà ignifughe, soprassedendo quindi, in materia di fuoco, su altre possibili fonti di pericolo quali i fumi e le esalazioni tossiche.
Le vittime dell'incendio torinese perirono in un luogo che, paradossalmente, sulla carta rispettava tutte le norme di sicurezza richieste all'epoca dalla legge – persino la circostanza della chiusura della maggior parte delle uscite d'emergenza non violava la normativa del 1983, la quale prescriveva, in modo generico, che queste fossero «apribili» senza tuttavia specificare come e da chi: «"Apribile", in questa accezione, significa semplicemente che non devono essere "murate". Anche una porta chiusa a chiave è "apribile", basta avere la chiave...».
Il proprietario Raimondo Capella fu condannato a otto anni in primo grado, poi ridotti a due in appello con sentenza definitiva, oltreché a risarcire i 250 parenti delle vittime, costituitisi parte civile, con una somma di 3 miliardi di lire del 1985, che gli costò il sequestro e la successiva vendita di tutti i beni posseduti.
Tra gli altri imputati, il geometra Amos Donisotti, il quale aveva supervisionato i lavori di ristrutturazione dell'esercizio fu condannato a sette anni, il tappezziere Antonio Ricci e l'operatore Antonio Iozza a quattro, mentre risultò assolto l'elettricista con la motivazione dell'insufficienza di prove; pene poi ridotte in appello, mentre in seguito la Cassazione concesse la prescrizione agli imputati rimasti.
La tragedia diede il via a una revisione completa della normativa italiana in materia di sicurezza contro gli incendi nei locali pubblici e, in particolare, nei cinema, portando molte sale a ricevere numerose modifiche strutturali.
Il Cinema Statuto non ha mai più riaperto, rimanendo per anni un triste monito con la sua facciata annerita dalle fiamme, fin quando fu abbattuto nel 1996 per far posto a un condominio.